5 Che dice la Scrittura? (Romani 4:3)

Manlio-
00mercoledì 20 aprile 2011 19:20
Visione di Mosè ad Oreb

«L’angelo dell’Eterno gli apparve in una fiamma di fuoco, in mezzo a un pruno. Mosè guardò, ed ecco il pruno era tutto in fiamme, ma non si consumava. Mosè disse: Ora voglio andare da quella parte a vedere questa grande visione e come mai il pruno non si consuma! L’Eterno vide che egli si era mosso per andare a vedere. Allora Dio lo chiamò di mezzo al pruno e disse: Mosè! Mosè! Ed egli rispose: Eccomi. Dio disse: Non ti avvicinare qua; togliti i calzari dai piedi, perché il luogo sul quale stai è suolo sacro.» Esodo 3:2-5

— Che insegnamento possiamo trarre dalla visione che Mosè ebbe ad Oreb?

Le circostanze speciali in cui Mosè si trovava ed il servizio a cui Dio l’aveva destinato ci aiutano a comprendere un po’ i pensieri di Dio. Dio stava per mandarlo a liberare il popolo d’Israele dalla crudele schiavitù in cui gemeva in Egitto. L’Eterno non aveva dimenticato la temerarietà con cui Mosè era intervenuto per cercare di salvare uno dei suoi fratelli, quarant’anni prima, quando possedeva, dal punto di vista umano, tutti i vantaggi possibile per rendere efficace il proprio intervento. Il favore che godeva alla corte del Faraone — visto che era stato allevato dalla figlia — il suo grande sapere, la sua forza fisica, la sua rettitudine, l’elevatezza del suo spirito, tutto indicava che poteva essere un uomo da cui ci si poteva aspettare grandi cose. Forse Mosè era cosciente delle proprie capacità e delle speciali attitudini che lo rendevano atto a diventare il liberatore.

Sicuramente la lealtà delle sue intenzioni lo mettevano al di sopra di ogni sospetto, anche se i suoi fratelli non l’avevano capito. Dio tiene conto della sua devozione e della scelta che aveva fatto di identificarsi con i suoi fratelli oppressi, invece di attaccarsi alle grandezze della corte di Faraone.

Di lui sta scritto: «Per fede Mosè, fattosi grande, rifiutò di essere chiamato figlio della figlia del faraone, preferendo essere maltrattato con il popolo di Dio, che godere per breve tempo i piaceri del peccato» (Ebrei 11:24-25).

Ma Mosè dovette fare l’esperienza che solo il nome dell’Eterno vale più di tutte le pretese e di tutti i vantaggi umani. I suoi primi sforzi sfociarono solo in una fuga vergognosa e, per quarant’anni, dovette condurre la vita di un semplice pastore nei pascoli del Sinai, sconosciuto e dimenticato. Così poteva sembrare che tutti i vantaggi eccezionali che aveva posseduto non avrebbero mai dato il minimo frutto. Mosè aveva soprattutto bisogno di essere liberato da se stesso e di capire cosa significa confidarsi in Dio.

Quando infine venne il momento in cui Dio lo mandò in Egitto, non si trova più in lui il coraggio esplosivo della gioventù. Al contrario, pone un mucchio di difficoltà, al punto da chiedere che Dio si serva piuttosto di qualche altro strumento per compiere un’opera così grande. Ahimè! Dobbiamo ancora una volta notare che l’ubbidienza non ha un grande valore per i nostri deboli cuori quando non si mescola con l’energia della carne, che Dio non può sopportare. Mosè ha dovuto imparare la lezione e camminare nel sentiero tracciatogli da Dio.

Non è il braccio della carne, ma Dio stesso che deve compiere la liberazione del popolo d’Israele, e Mosè doveva essere in Egitto il messaggero di Dio presso il grande re. L’Eterno gli disse: «Ho visto, ho visto l’afflizione del mio popolo che è in Egitto e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; infatti conosco i suoi affanni. Sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani...» (Esodo 3:7-8)

Mosè doveva imparare ciò che si addiceva alla presenza di Dio, ed allo stesso tempo, quali dovevano essere i rapporti tra un Dio santo ed un popolo carico d’iniquità — ribelle fin dal giorno in cui Mosè l’aveva conosciuto (Deuteronomio 9:6,7,24).

Imparò queste due cose nel pruno ardente, che non si consumava. Dio era presente, il Dio del padre di Mosè, il Dio dei suoi antenati con cui era stato stipulato un patto. Era la grazia che si manifestava in favore del popolo oppresso; ma Dio è un Dio di santità, ed in Sua presenza Mosè dovette togliersi i sandali, e nascondersi il viso. Dio era presente come un fuoco consumante, perché ha «gli occhi troppo puri per sopportare la vista del male, e non può tollerare lo spettacolo dell’iniquità» (Abacuc 1:13); ma allo stesso tempo è anche un Dio Salvatore che, per niente indifferente alle afflizioni del suo popolo, vuole compiere in suo favore le promesse fatte ai padri.

Questa doppia lezione della grazia e della santità divine fu ormai per Mosè l’elemento stimolatore della sua vita ed anche la sua forza nei momenti drammatici che dovette superare in seguito. Che anche noi possiamo imparare la stessa lezione nel suo compimento perfetto, cioè nella croce del nostro Signore Gesù Cristo.

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