DONNE-IMAM O "DONNE DI SINISTRA"?

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INES TABUSSO
00mercoledì 14 novembre 2007 17:29



QUOTE ROSA
TERRIFICANTE SONDAGGIO DEL CORSERA
LE NUOVE CORRENTI:
QUOTA PELLICCIA
QUOTA CAPPOTTINO
QUOTA NO-VELO
QUOTA SI'-VELO


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» 14/11/2007
Essere donna, e di sinistra, significa non portare la pelliccia. Secondo voi è giusto?
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CORRIERE DELLA SERA
14 Novembre 2007
Sinistra in pelliccia, duello tra donne
De Petris (Verdi): la Palermi se la tolga. E lei: non sei democratica
La Serafini si schiera con la senatrice del Pdci: se sta bene perché no?

MILANO — Niente pelliccia. Per Loredana De Petris, senatrice del gruppo Verdi- Pdci, essere donna, e di sinistra, significa anche questo. E così per ben due volte si è trovata a dover «riprendere » la sua collega di gruppo, la senatrice Manuela Palermi. «Colpevole» di aver indossato l'oggetto del contendere. «Ma non erano cappotti interi — spiega De Petris, confermando l'indiscrezione che da qualche giorno circolava a Palazzo Madama —. In realtà una volta aveva un collo un po' vistoso di pelliccia, e un'altra un giubbotto con un'imbottitura. Nessuna lite tra noi. Solo che a un certo punto non ho resistito e glielo ho detto: "Manuela, ma che ti sei messa addosso?" E lei: "Ma sai, ce l'avevo da un po'...". E che significa? Essere di sinistra vuol dire non contraddire mai certi valori».
Depetris non ne fa «una questione di perbenismo», bensì «di stile. Certe cadute, da noi donne di sinistra, non sono ammesse. La pelliccia è simbolo del cattivo gusto. Purtroppo molte di noi le stanno indossando. Nomi? Tanti. Mi ricordo la fodera di un impermeabile della Finocchiaro...».
Palermi, però, minimizza: «Discussione con De Petris? Non ricordo. E poi io non possiedo pellicce, solo un paio di colli... Ma comunque non sono una che dice: guai a chi ne indossa una. Sono per la democrazia, io».
La senatrice del Pd Anna Serafini, però, vorrebbe evitare drammatizzazioni: «L'importante è rispettare sempre la propria personalità. E se una cosa ti sta bene... perché no? Per quanto mi riguarda non ho pellicce, ma perché non le amo. Mi rappresenta di più un tubino nero. Solo una volta, per il matrimonio di un amico in Canada, comprai un montone. Poi mi fu rubato e stop. Ma non criticherei mai nessuno per indossarne una: si può essere di sinistra anche con la pelliccia».
La giornalista Ritanna Armeni, invece, non ha dubbi: «Non la metterei mai. Per un fatto simbolico. Venti anni fa in Norvegia, causa gelo, ne comprai una ma non l'ho più indossata. Se volete, c'è anche un'immagine generale della sinistra da difendere. Non sono moralista, ma il mio essere femminista e di sinistra mi fa escludere alcune cose. Come gli abiti firmati, che ho ottenuto di non indossare anche in tv, a Otto e mezzo.
Insomma, mi piace una sinistra che spontaneamente si adegua a certi valori. Meglio una pizza che un ristorante gourmet, per intenderci...».
E la senatrice prc Rina Gagliardi prova a mediare: «Da animalista convinta sono contraria alle pellicce, ma non criminalizzerei. Niente dogmi, per favore. Nella nostra storia ce ne sono stati già troppi. Però... alle donne democratiche dico: evitiamo di sprecare i soldi per le pellicce. Perché alcuni valori, forti e condivisi, per noi, esistono sempre».



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L’UNITA'
24 0ttobre 2007
Velo sì velo no, dopo il caso Santanché si accende la
miccia in Italia
Il Corano non lo prescrive. A «Porta a Porta» nuovo battibecco tra l’onorevole di An e
l’Imam. Livia Turco: «Ci vuole l’alleanza delle donne»
di Anna Tarquini


SURA XXIV, la luce. «E dì alle credenti di abbassare i loro sguardi ed essere caste e di non
mostrare, dei loro ornamenti, se non quello che appare; di lasciar scen-
dere il loro velo fin sul petto e non mostrare i loro ornamenti ad altri che ai loro mariti, ai
loro padri, ai padri dei loro mariti, ai loro figli, ai figli dei loro mariti...». Partiamo da qui,
dal Corano. Partiamo sgomberando il campo agli equivoci. In nessun modo - è scritto e lo
dicono tutti gli esperti - il Corano prescrive alla donna di coprirsi il volto. Quello che ha
detto Daniela Santanché dunque era sacrosanto. Ma ancora ieri, negli studi di Porta a Porta,
l'Imam di Segrate che pure aveva abbassato i toni, ha continuato ad affermare il contrario. In
studio è andata in onda anche parte della registrazione della trasmissione incriminata, con
l'Imam accusatore che gridava rivolto all'onorevole di An «lei è una falsa». E poi in studio:
«Infedele? Ma se lei non è musulmana come posso dire infedele?». Dunque l'ha detto. L'ha
ripetuto. Anche se ancora ieri ripeteva: non c'è fatwa, non c'è minaccia. La scorta di Daniela
Santanché è operativa da ieri. Il Viminale ha confermato, ma la Prefettura di Milano che ha
accelerato i tempi e preso la decisione non fornisce motivazioni: «È una questione delicata,
le motivazioni restano top secret». Da ieri, insieme alla scorta e al clamore del caso è
ufficialmente entrato in Italia, come prima in Francia e in Germania, la questione velo.
L'occidente, l'Italia, è pronta a accettarlo? È pronta a importare questa usanza e se si entro
quali limiti? In studio ci sono il ministro Barbara Pollastrini, l'Imam di segrate come
abbiamo detto, l'onorevole di Forza Italia Burani Procaccini. E ci sono due ragazze
islamiche. Una porta il velo, l'altra no. La prima si chiama Sara ed è egiziana. Dice: per me
il velo è sicurezza, è identità. Io non giudico chi non lo mette, la giudicherà Dio». E c'è
un'altra ragazza che è vissuta in Italia come Sara e che ha fatto anche miss Italia che dice:
«Io mi sentirei a Disagio se mettessi il velo. Sara porta il velo per la sicurezza? Questa frase
non mi piace». E c' ancora l'Imam di Segrate che chiarisce: «Per il Corano obbligatorio è ciò
che copre il capo e lascia faccia e mani a scoperte. Poi in Italia c'è una legge che vieta di
coprire il volto. Se c'è una legge bisogna seguirla». Dove è nato tutto? Lo spiega forse
l'onorevole Santanché: tre giorni fa il Tar di Trieste ha deciso che la legge anti-terrorismo,
quella che vieta di coprire il volto, non è applicabile al burqa. Il caso Santanché è solo la
punta dell’iceberg perché anche in Italia - come hanno dimostrato ben due interventi
autorevolissimi e precedenti alla lite in Tv, quello del capo del governo Prodi e del ministro
Amato - esiste necessità di fare chiarezza, di dire cosa è esportabile e cosa no. A cosa dire sì
e a cosa dire no. Prodi e Amato hanno detto una cosa semplice: il burqa che oscura il volto
no, velo sì se volontario. Su questa base ieri è nata la proposta del ministro Livia Turco di
creare una «lobby rosa» per i diritti di tutte le donne («una bella notizia», ha commentato la
Santanché). È un appello alle donne musulmane: «A loro - dice il ministro della Salute - a quelle
che portano liberamente il velo, chiedo un’alleanza perché nessuna donna debba
portare burqa, velo o altri segni non per scelta ma per imposizione». E poi ha aggiunto:
«Non posso non vedere che ci sono donne europee che dell’emancipazione hanno fatto la
loro bandiera e che rivendicano l’uso del velo in nome di questa autonomia, per questo
l’imperativo è non banalizzare». L’argomento è scivolosissimo tanto è vero che
sull’opportunità di entrare nella discussione la politica è divisa. C’è il rischio di
estremizzare. Così se per la senatrice Anna Serafini, il sottosegretario alla Solidarietà
sociale Cristina De Luca, la senatrice della Margherita Paola Binetti la proposta di una
lobby rosa per la difesa dei diritti delle donne è buona cosa, per Katia Belillo del Pdci e
Roberto Biscardini della Rosa nel Pugno, per la Zanella dei Verdi quella del velo non può
essere una battaglia. I primi dicono: «Quando il velo è libera scelta di cultura identità e
appartenenza va bene, altra cosa è il burqa che impedisce alla donna di essere riconosciuta.
In questo momento può esser fatto un lavoro utile in campo etico, culturale e antropologico,
anche in riferimento alla famiglia». I secondi replicano: «L’attacco al velo rischia di essere
esasperato». Dacia Maraini spiega: «È chiaro che è inopportuna ogni proibizione e dico no
al velo totale, al burqa, perché da noi esiste una legge che vieta di coprirsi la faccia e si deve
stare alle regole».



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Corriere della Sera
10 ottobre 2007
Il responsabile delle Pari opportunità: sono indignata, offende la donna
di Alessandra Arachi


ROMA — Il prefetto di Treviso dice sì al burqa? E i ministri litigano tra di loro. «Sono sconcertata e indignata, ritengo la copertura integrale del volto un'offesa alla dignità delle donne», la voce decisa di Barbara Pollastrini, delega alle Pari Opportunità. Che non esita: «Dunque non deve esserci nessuna ambiguità: il no al burqa è netto. Come del resto sono sempre stati chiari il premier e il ministro dell'Interno Giuliano Amato».
E anche ieri c'è stata questa chiarezza evocata dalla Pollastrini, quanto meno per quel che riguarda Amato. Che proprio ieri dal Viminale mandava a ripetere (nelle stesse ore in cui in Francia un'albergatrice veniva condannata a 4 mesi con la condizionale e 1.000 euro di multa per aver respinto due clienti che indossavano il velo): «Abbiamo già più volte detto e lo ribadiamo che l'uso del burqa è inaccettabile».
Eppure nel governo c'è tutto tranne che unanimità. E non soltanto per via di Rosy Bindi, ministro della Famiglia. Ieri, dopo la ridda di polemiche sulla decisione del prefetto di Treviso, è stato anche Paolo Ferrero, ministro della Solidarietà sociale, che ha approvato l'iniziativa del prefetto di Treviso: «Un provvedimento intelligente. Credo che dovremmo imparare dal suo buon senso per fare una legge sulla libertà religiosa a livello nazionale». La verità è che c'è ben poca chiarezza nella maggioranza in materia. Perché anche Mario Morcone, al Viminale è il capo del dipartimento immigrazione, difende il prefetto: «Non ha fatto altro che dire la verità. Ha infatti chiarito che indossare il burqa non costituisce reato in assoluto, ma vanno valutati i casi».
Ma le polemiche sono diventate sempre più esplosive. Non solo a livello di governo. Anche dentro al Parlamento la spaccatura nella maggioranza è evidente. E se Marina Sereni (Ulivo), Vittoria Franco (Ds), Silvana Mura (Italia dei valori) e Maura Leddi (Dl) hanno fatto un fronte compatto per dire no al burqa, ci sono state invece altre, come la verde Luana Zanella o Albertina Soliani dell'Ulivo, che si sono schierate sullo stesso fronte di Ferrero e della Bindi, parlando di «buon senso del prefetto di Treviso».
Dall'opposizione il fronte del «no» è praticamente compatto.
E se la voce più alta sembra quella di Daniela Santanchè, An, («com'è possibile che una circolare della polizia vada contro le leggi vigenti? »), alla sua si accostano anche quelle dei suoi compagni di partito, a partire dal presidente Gianfranco Fini («Non condivido la decisione del prefetto ») a Maurizio Gasparri.
Per Alessandra Mussolini, di Azione sociale, non ci sono dubbi: «Il burqa in Italia è un problema che non esiste, semplicemente perché è illegale». Senza via di mezzo le reazioni della Lega. Mario Borghezio: «Il prefetto di Treviso metta il burqa a sua moglie». E Roberto Calderoli: «Aboliamo già in questa Finanziaria la figura dei prefetti, un'istituzione inutile ».
«Quel copricapo è una prigione, non diamola vinta ai violenti»



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Corriere della Sera
10 ottobre
MARINA SALAMON
di Roberto Rizzo

MILANO — Nella sua azienda assumerebbe una donna che si presentasse a un colloquio di lavoro con il volto coperto dal burqa? «Guardo il curriculum non l'aspetto fisico delle persone, dunque, per lealtà nei confronti della donna e se avesse i requisiti, l'assumerei. Questo, se ci fosse una legge che consentisse alle persone di girare e lavorare a volto coperto. Chiaro che non auspico un simile provvedimento ». Marina Salamon, imprenditrice «di sinistra », veronese ma trevigiana d'adozione, fondatrice di Altana, la maggiore azienda italiana produttrice di abbigliamento medio-alto per bambini, prende le distanze dal prefetto Vittorio Capocelli («Non è che l'ha fatto in spregio al prosindaco Gentilini? Il prefetto dovrebbe capire che il Paese non può andare avanti a forza di capricci individuali ») e si dichiara contraria alla sua decisione: «Sono contraria perché sono una donna oltre che un'imprenditrice. Non ho difficoltà a riconoscere il diritto a coprirsi i capelli o parte del capo, ma l'uso del burqa mi terrifica perché è una discriminante. Ribalto la domanda: quale supermercato, per esempio, assumerebbe come cassiera una donna che porta il burqa? Presumo nessuno. Lo stesso vale per la mia azienda. Non potrei far lavorare in un ufficio a contatto con il pubblico una donna con il volto coperto. Al massimo in qualche settore amministrativo anche se, con le colleghe, avrebbe vita dura. Però significherebbe un bel passo indietro nella battaglia per i diritti delle donne che lavorano. Ho avuto lunghe discussioni con i miei dipendenti albanesi che hanno fatto molta fatica ad accettare di prendere ordini da una donna. Vedere ogni giorno delle collaboratrici arrivare in ufficio a volto coperto mi darebbe una grande tristezza».
Salamon non ha dubbi, portare il burqa non può essere una libera scelta. È solo un atto di costrizione: «Mi occupo di programmi di sostegno a donne immigrate e conosco tante storie di donne blindate dai mariti tra le quattro mura domestiche. Il burqa è un'altra di queste prigioni ». Scusi, ma il ministro Rosy Bindi ha offerto la sponda al prefetto Capocelli. Dice che «se è simbolo di una cultura liberamente scelta, va tollerato». «La fede religiosa va rispettata se non è aggressiva ma non possiamo darla vinta a chi fa della violenza una propria caratteristica — ribatte Marina Salamon —. Ragionando come fa il ministro, il prossimo passo sarà l'ammissione dell'infibulazione, a patto che sia una libera scelta. E perché non accettare nel nostro ordinamento anche la sharia, la legge coranica? Mi sembra che in Italia si cerchi di darla sempre vinta a chi è più violento, a chi prevarica».
Parole che sembrano pronunciate dal prosindaco di Treviso Gentilini, o da un suo sostenitore, e non da un'imprenditrice «illuminata» com'è considerata Marina Salamon. «Mai stata dalla parte di Gentilini, sempre contro. Quando fece togliere le panchine dalle piazze di Treviso per non far sedere gli immigrati, fui tra quelli che le rimise pagandole di tasca propria. Non sto con lui nemmeno sul burqa, ma neanche con l'integralismo islamico. Sto dalla parte di Magdi Allam, che è quella di un Islam diverso».
Non per deluderla, ma un altro ministro, molto a sinistra, Paolo Ferrero della Solidarietà sociale, parla di «provvedimento intelligente e di buonsenso» il non vietare un costume religioso: «Mi sembra il solito buonismo a tutti i costi che fa male, molto male, alla sinistra».
«Si tratta di un simbolo culturale bisogna riflettere prima di vietarlo»



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Corriere della Sera
10 ottobre 2007
Il ministro della Famiglia dopo le critiche: è chiaro che non deve essere un'oppressione
di Virginia Piccolillo

ROMA — «Sia ben chiaro che io non voglio le donne con il burqa perché penso che può essere una forma di oppressione. Ma non usiamo l'argomento della riconoscibilità del volto perché allora vale anche per il casco del motorino usato dai nostri ragazzi». È indignata Rosy Bindi perché, dice, «estrapolando una frase dal contesto » è stata presentata come fautrice del burqa. E lo dice con veemenza al termine di un dibattito organizzato dalla rivista Reset, in cui ha avuto modo di lodare la «secolarizzazione che ha fondato la laicità dello Stato, che è garanzia di pluralismo culturale e religioso» e di sottolineare come la vera sfida del futuro sia «il rapporto tra credenti e come far convivere le diverse religioni».
Dunque non è per il burqa?
«Ma se siamo andati in Afghanistan per togliere il burqa alle donne, figuriamoci se io glielo voglio mettere in Italia ».
Allora cosa intendeva dicendo che il burqa può essere un simbolo della propria civiltà?
«Volevo dire che se non è una forma di oppressione, ripeto se non lo è, il velo è un simbolo culturale. E nella civiltà postsecolare i simboli delle varie culture devono avere tutti la possibilità di esprimersi. Non ci deve essere un annullamento dell'identità. È questo lo Stato laico. E se indossare il burqa è una libera scelta, prima di proibirlo con argomenti pretestuosi credo che dovremmo riflettere».
Ma il burqa non è diventato anche il simbolo della negazione dei diritti delle donne da parte dei loro uomini?
«Non c'è dubbio che quelli devono essere tutelati. Ci mancherebbe. Lo Stato laico deve essere garanzia dei diritti delle persone e quindi le donne islamiche vanno difese anche dall'imposizione del velo. Ma non con le argomentazioni di Gentilini (il vicesindaco leghista di Treviso,
ndr) ».
Ovvero?
«Lui vuole negare alle donne musulmane di esprimere la propria identità. E questo è ancora più pericoloso. Anche l'omologazione alla civiltà occidentale se imposta è una violenza».
La legge vieta di rendere il volto non riconoscibile. Questo non è un argomento da prendere in considerazione?
«Questo è un argomento serio ma non può essere usato in senso strumentale. A richiesta il volto deve essere reso visibile e riconoscibile».
Non pensa che le stesse donne immigrate abbiano paura di ritrovarsi qui in Italia maggiormente in balia dell'integralismo che nei loro Paesi d'origine?
«Le donne immigrate sono fragilissime e hanno paura non solo che si riproduca qui la sottomissione che si esercita nelle loro civiltà, ma anche di subire da parte nostra il non rispetto della loro civiltà. La vera sfida è costruire la loro libertà nel rispetto della loro differenza».






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