00 08/11/2008 22:25
"Il tempo materiale" di Giorgio Vasta
di Giorgio Fontana



Tre preadolescenti nella Palermo del 1978 che imitano le gesta delle Br e le replicano nel loro microcosmo di provincia, in un'escalation di violenza ed estremismo, possono significare due cose. Una storia locale e cronachistica, oppure una metafora di come l'assolutismo strangoli la vita. Il romanzo di Vasta è, prepotentemente, la seconda cosa.
Il primo elemento straniante del libro è che i tre ragazzini parlano e agiscono come brigatisti formati. I loro dialoghi, la loro precisione, il loro rapporto con il reale è da un lato infantile, perché costretto in un corpo infantile (con tutti i vantaggi e svantaggi del caso), e dall'altro coscientemente adulto. Il lettore deve accettare questo sfasamento, perché è questo sfasamento ad avere un valore simbolico profondo.
I veri bambini palermitani, i "ragazzini dialettali", sono vitali, sporchi, immersi a tutto tondo nelle cose. Al contrario, Nimbo, Raggio e Volo sono non-ragazzini. Accettano solo il lato assolutistico dell'infanzia, la pretesa condizione di innocenza, di stato di natura, dove si può affermare il dominio sul mondo e ricrearne a piacimento il linguaggio. Ma questo lato viene da loro trasfigurato. Cercano di renderlo eterno, di elevarlo a stato politico.
Non è un caso che i tre protagonisti siano ossessionati dalla sintassi delle Br, e che il romanzo sia pervaso da una forza stilistica straordinaria. Vasta mette in bocca al suo narratore una radiografia linguistica totale, dove ogni particolare viene sminuzzato attraverso un lessico precisissimo. Non solo. I tre protagonisti inventano anche un "alfamuto", un alfabeto a gesti che trasforma e "rivalorizza" i codici dell'entertainment televisivo che stanno per imporsi sull'Italia: il salto dello steccato dell'olio Cuore, la parodia di Mike Bongiorno.
Tutto trasmuta e viene riconfigurato, in un desiderio continuo di rivoluzione e superamento della propria realtà. Ma attenzione: qui non c'è traccia di disagio giovanile. Le vite dei tre undicenni sono assolutamente normali, le loro famiglie del tutto stabili. Non c'è alcun ribellismo "caldo". Nimbo è un narratore asettico, che cerca in ogni modo di soffocare le sue crepe interiori: il compagno Volo, l'autentico capo del gruppo, un profeta rigido e calcolatore. I tre si sottopongono a un regime di esercizi crudele, che ricorda quello de Il grande quaderno di Agota Kristof. Vogliono edificare un mondo. L'utopia glaciale di un piccolo totalitarismo che replica alla perfezione quelli grandi: ogni sfumatura è cancellata da un'intelligenza superiore, da una volontà che vuole conoscere tutto e non avvicinarsi a nulla, perché rifugge ogni affetto. Un gioco da ragazzi che non diventa tragedia, perché lo è fin dall'inizio.
Così, più si avanza nella lettura, più la dinamica malata esplode e infetta la narrazione. I tre si rendono conto di non avere un vero nemico. Sono invisibili, chiusi nei loro corpi di preadolescenti, e allora un nemico devono inventarselo ad ogni costo: il nemico è dappertutto, è la società, e perciò chiunque può essere colpito. Scelgono così un bersaglio del tutto anonimo. Un compagno di classe solitario, che non oppone nemmeno resistenza. Viene rapito (come Aldo Moro), rinchiuso in un buco, e poi ucciso per soffocamento. I tre partoriscono letteralmente il loro primo morto, lo restituiscono al mondo. La loro mente ha prodotto qualcosa: l'assenza di vita. È il punto più alto e crudele del libro, e ne racchiude a mio avviso l'intero nucleo. Tutto questo sforzo, tutta questa violenza su di sé e sul mondo, per produrre soltanto morte.
In questo senso, è vero che "Il tempo materiale" è un romanzo storicizzato, un romanzo che ci parla del 1978, dell'imitazione pedissequa delle Br: ma credo che la storicizzazione del fatto sia secondaria. La vera forza del libro sta nella sua universalità. Nel suo essere riproducibile ovunque. Chi difende l'innocenza assoluta difende una prigione di cristallo, dove la presunta salvezza è pagata con la crudeltà.
Crescere significa scansare questa pretesa innocenza. Imparare ad amare e imparare a soffrire. Ed è così che Nimbo si salva: passando dalla freddezza dell'utopia alla grammatica del dolore. La bambina di cui è innamorato, e che nei piani di Volo va sacrificata come seconda vittima, torna a essere semplicemente la bambina di cui è innamorato. E lui torna a essere, per la prima volta, semplicemente un ragazzino. Qualcuno in grado di tradire la causa e denunciare i compagni.
Il linguaggio, la concettualizzazione rigorosa, l'analisi che penetra la realtà fino a renderla puro fattore di discussione, l'assolutismo etico, la totale mancanza di ironia, la totale mancanza di empatia: tutto, dentro Nimbo, cerca disperatamente una fine. E sarà proprio questo a mandare in frantumi il sistema. Dalle parole alle cose, finalmente, quando "alla fine delle parole comincia il pianto".


"Il tempo materiale" di Giorgio Vasta
minimum fax, pagg. 311, 13 euro



da www.ilsole24ore.com/


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