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by Claudione

Ultimo Aggiornamento: 29/07/2014 11:10
18/07/2012 13:34
 
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Bisogna germanizzare l’Europa o europeizzare la Germania?

Eric LE COZ, Deputy Managing Director di Carmignac Gestion

Nonostante i numerosi vertici europei (19 finora!), il deterioramento del contesto economico e finanziario dell’Eurozona è persino peggiorato nelle ultime settimane. La situazione è ormai critica, poiché costituisce una minaccia sistemica per l’economia mondiale. Inoltre, negli ultimi mesi l’economia statunitense ha mostrato evidenti segni di affanno. Quanto alle economie emergenti, la loro decelerazione prosegue. In tale contesto, e al di là della necessità di costruire i portafogli in base a convinzioni di lungo termine, la gestione attiva dei rischi continua a rappresentare il caposaldo della nostra gestione. Ciò ha consentito di registrare performance che da inizio anno sono di tutto rispetto per l’insieme dei nostri fondi. A causa della situazione europea, ed in particolare a causa della debolezza del sistema bancario, il rischio finanziario perdurerà. La questione principale che si pone oggi è quella di valutare il rischio di contagio economico della recessione europea al resto del mondo, soprattutto a Stati Uniti e Cina.
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Potete stare certi infatti che, nonostante alcuni paesi dell’Eurozona siano già alle prese con una recessione particolarmente grave, per l’insieme dell’area il peggio deve ancora venire. Riteniamo ineluttabili le revisioni al ribasso delle previsioni di crescita in Francia e Germania. Tali revisioni hanno già avuto un impatto sulle previsioni per il 2013, ma non ancora sull’anno in corso. Dovremmo forse attenderci miracoli da ogni vertice dei leader dell’Eurozona? Possiamo legittimamente dubitarne, tanto la coesione politica sembra fragile tra i nostri leader. Le divergenze sono ancora profonde tra i sostenitori di una rapida evoluzione verso il federalismo europeo e quelli che lodano il mantenimento assoluto e totale della propria sovranità nazionale, richiedendo al tempo stesso una maggiore solidarietà tra Stati ed una condivisione del debito sovrano.

Bisogna germanizzare l’Europa o europeizzare la Germania? Bisogna lodare la virtù fiscale e promuovere riforme che consentiranno alle nostre imprese di adattarsi ad un mondo in costante evoluzione o continuare invece a perpetuare la promessa illusoria di uno Stato assistenziale, protettore in ogni circostanza, interventista senza reale discernimento economico? Un solo dato basta ad illustrare le divergenze. Negli ultimi dieci anni, il costo unitario del lavoro è aumentato del 7% in Germania. Nel contempo, è salito del 30% in Francia e Italia, del 35% in Spagna e del 42% in Grecia. L’obiettivo di restaurare, o piuttosto, costruire un’Unione Economica, sembra ancora ben lontano.
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A breve termine, e nonostante l’annuncio di nuove misure tese a consentire la ricapitalizzazione (e quindi la nazionalizzazione) diretta delle banche, e a ridurre il costo di rifinanziamento degli Stati in difficoltà, si concretizzeranno ancora fasi di stress finanziario, che provocheranno un ritorno dell’avversione al rischio. Più a lungo termine, il perdurante calo dell’euro potrebbe compensare in parte la debolezza della domanda, in particolare per le imprese esportatrici su cui la nostra gestione europea ha puntato, indovinando, sin dall’inizio dell’anno. Nonostante tutto, questi fattori inducono alla prudenza e alla vigilanza. La nostra gestione globale mantiene pertanto un’esposizione netta molto limitata sia all’Eurozona che alla moneta unica.

Sebbene non sia più in dubbio che lo stress finanziario europeo possa trasmettersi a tutti i mercati globali, va comunque posta la questione del rischio di contagio della recessione europea all’economia statunitense. In primavera i dati statistici oltre oceano sono notevolmente calati. Mentre a inizio anno l’indicatore macroeconomico era ampiamente positivo, si è osservata una netta inversione negli ultimi mesi. La creazione di posti di lavoro è rallentata e i principali indicatori economici sono scesi, nonostante la stabilizzazione del mercato immobiliare. Per quanto i comunicati della Federal Reserve e di Bernanke abbiano fatto eco ai crescenti timori a fronte di un peggioramento della situazione economica europea, è prematuro concludere che l’economia statunitense vacilli a causa dell’Europa. In realtà, il quadro non è poi così drammatico. I dati attuali restano in linea con una crescita economica attorno al 2%, il che non è male nell’attuale contesto. È più verosimile che la flessione sia riconducibile a due fattori: da un lato ad una debole progressione dei redditi reali, che come sottolineato sin da fine marzo potrebbe frenare i consumi; dall’altro lato, ad un attendismo delle imprese per quanto riguarda gli investimenti e le assunzioni a fronte di un contesto fiscale incerto (il famoso precipizio fiscale che minaccia le imprese e le famiglie con un rialzo che sarebbe nefasto per l’economia).

Su tutti questi punti vorremmo essere abbastanza ottimisti. In primo luogo, Bernanke vigila. Ha già allontanato di un anno (fine 2015) la prospettiva di un rialzo dei tassi di riferimento. Ha poi mantenuto attiva l’Operation Twist e si è detto pronto ad adottare misure appropriate se la tendenza economica dovesse giustificarlo, ovvero che il nuovo quantitative easing (QE3) è pronto. Per quanto riguarda la debolezza della crescita dei redditi, rammentiamo solo che le quotazioni petrolifere hanno perso il 25% in poche settimane, il che si tradurrà tra qualche mese in un minor prelievo sul potere di acquisto delle famiglie. Infine, per quanto riguarda la possibile fine delle esenzioni fiscali dell’era Bush, riteniamo per certo che sia i Repubblicani che i Democratici sapranno posticiparne la scadenza. Se c’è un paese che può permettersi di rinviare le scadenze («kick the can») del risanamento delle finanze pubbliche, sono proprio gli Stati Uniti. In termini di investimenti, questo scenario si concretizza in una prudenza a breve termine, giustificata da una crescita attesa moderata degli utili e dalle possibili sorprese negative nel periodo di pubblicazione dei risultati finanziari. Per contro, e a condizione che l’Europa non venga a rovinare tutto, il mercato dovrebbe restare sorretto da valutazioni ragionevoli e livelli di liquidità che rimarranno abbondanti in un contesto di crescita mondiale moderata.

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L’universo dei paesi emergenti contribuisce a questa moderazione della crescita mondiale. Non dimentichiamo che una crescita troppo brusca aveva condotto la maggior parte di questi paesi a tensioni inflazionistiche che bisognava stroncare. Attualmente la situazione è contrastante. Il Brasile e l’India, per motivi diversi, sono i paesi nei confronti dei quali rimaniamo prudenti. Il primo ha registrato un eccesso di crescita del credito e deve far fronte ad una mini crisi dei subprime (comunque senza paragoni con la sorella maggiore statunitense), mentre le riforme sono in ritardo nell’agenda di Dilma Roussef. Tuttavia, può ancora essere sfruttato un importante margine di manovra in termini di politica monetaria, il che dovrebbe consentire il proseguimento della correzione del Real, che resta sopravvalutato. Quanto al secondo, l’incapacità di introdurre riforme, un’inflazione persistente ed un cattivo inizio della stagione dei monsoni sono fattori che ci inducono ancora ad una prudenza di breve termine.

Per quanto riguarda la Cina, il rallentamento è evidente, pur sembrandoci altrettanto controllato. Le vendite nel settore immobiliare sono in ripresa. É stato introdotto, per le zone rurali, un incentivo alla rottamazione nel settore automobilistico e sono state prese tutta una serie di misure mirate, oltre alla prima riduzione dei tassi decisa nel corso del mese. I dati economici pubblicati di recente confermano un progressivo miglioramento nella crescita che dovrebbe stabilizzarsi attorno all’8% quest’anno e su un livello forse leggermente inferiore l’anno prossimo. Questo contesto ha reso nervosi gli investitori, forse eccessivamente, tenuto conto del fatto che in questo rallentamento strutturale dell’economia cinese il governo mantiene da un lato il controllo della situazione e, dall’altro, dispone più di ogni altro paese di un importante margine di manovra. In particolare, e nonostante una fase di transizione politica, il ritmo delle riforme, specie in ambito finanziario, sembra già accelerare.

A breve termine, è difficile essere soddisfatti del proprio portafoglio, qualunque sia l’allocazione azionaria. La sovraperformance dei mercati emergenti rispetto a quelli sviluppati non è evidente visto il possibile contagio dello stress finanziario europeo alla sfera globale; le materie prime sono calate ma le società minerarie continuano ad investire ed i settori più “difensivi” sembrano ampiamente valutati ma le imprese dei settori più ciclici registrano un calo nel carnet degli ordini. La visione di lungo periodo resta chiara e a favore della crescita e del miglioramento del tenore di vita nei paesi emergenti. Permane pertanto dal canto nostro la necessità di mantenere le allocazioni in linea con tale valutazione di medio termine e nel contempo di gestire i rischi più a breve.

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